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QUEI TONNI DEL MAR DI TASMANIA



Riccardo A. Andreoli

Foto subacquee di Craig Clasen

Appassionati lettori e care lettrici, questo è il racconto del mio più grande insuccesso in faccende di mare.
Ho talmente tanti inizi in testa, tante cose sono successe dentro e fuori di me che non so questa volta davvero da dove partire. Così, col vostro tacito consenso, comincerò come posso, in un paio di modi, per poi continuare, spero, in maniera più coerente. Sui finali però non c’è accordo con me stesso. Così ne metterò due. A voi lettori la scelta di quello che preferite.

Scena, e qui mi rivolgo agli apneisti di voi: Mattino presto. In mare, quella calma piatta che sa di giornata perfetta, calda, appena di là da venire. Siete in acqua, una notte di sonno pacifico dietro le spalle, tranquilli, il mare già nella mente. Intorno, nessuno. Sotto, i barbagli di una secca che conoscete. State per rompere il fiato, tutto il tempo del mondo a disposizione. La superficie così liscia che ogni volta che inspirate il corpo galleggia un poco di più. 
Respirate piano, lentamente, poi un’inspirazione, calma, profonda. Scivolate sott’acqua. È la prima immersione, non dovete far nulla, solo attendere che l’acqua vi scorra addosso, si chiuda sopra di voi, il tempo sospeso. A mezz’acqua vi fermate, unico bersaglio la semplice gioia di godere dell’immersione, la superficie uno specchio fermo, da contemplare lassù.
Costruita l’immagine? Bene. Pronti o no, ecco.

A cinque metri una parete rugginosa, nera, scheggiata, si perde verso l’alto. La poppa di un trawler oceanico, cento metri di reti, argani giganti, puzza decennale e rumore. Ondeggia pesante, sale e scende, obliqua a tratti a seconda di come l’onda colpisce.
Quei cinque metri sono pieni di un fiume di acqua ruggente, bianca di schiuma, frustata dalle eliche della barca sulla cui poppa sono seduto. Si scuote di colpo tutta, brusca, ponderosa nei suoi venti metri. Alla violenza della manovra sento la vibrazione salire su su a scuotere la colonna vertebrale, a farmi vibrare i denti. Intorno un tumulto, la nave che romba, le eliche della barca che mi urlano sotto il sedere, il capitano che bercia in neozelandese stretto per coordinare le manovre.
La poppa che sgroppa furiosamente nei quattro metri di onda oceanica, due telecamere puntate addosso che mi seguiranno sott’acqua a registrare ogni più piccolo colpo di pinne, l’uomo dietro di me che di colpo mi urla nelle orecchie “GO – GO – GO!!!”. E mi tuffo in un caos di acqua torturata dalle doppie eliche della nave che sta ancora passando e della barca ora sopra di me, scosso dalle onde di riflusso che rimbalzano pazzamente costrette tra le due fiancate, nell’acqua verde a tredici gradi dell’inverno del Mare di Tasmania.

Mal di mare? Io? Mal di mare? Ma quando mai! Figurati, con tutto il mare che mi sono macinato in questi decenni! 
Questa facile, peraltro assolutamente veritiera affermazione non la potrò più sbandierare. Ho avuto mal di mare, sempre, per tutti i giorni in cui siamo stati fuori. Futile il ricercarne ora le cause. Il movimento più lento della barca grossa mentre sono abituato a quello più secco di barche più piccole? L’aver, la prima serata, mentre praticamente tutti, guide neozelandesi comprese, cedevano al vomito, esser stato così bene dall’aver spazzolato un bel piatto di pollo e patate? Che nel giro di meno di un’ora finiva sprecato fuoribordo facendo così partire il tutto? La non abitudine alle successive pillole per il mal di mare, l’averne rabbiosamente prese forse troppe? Una sorta di intolleranza a quelle particolari pillole? Non importa. A posteriori, adesso, futile, inutile, dolorosamente vano.
Il mal di mare in ogni caso dopo qualche giorno diventa in sé una sorta di malattia. Non mangi nulla o quasi per giorni, non bevi nulla se non qualche piccolo sorso d’acqua per altrettanto. Dormi, se si può dir dormire, a brandelli e male. La testa si confonde, il corpo continua nella marcia di tradimento, diventa sempre più debole, rimbalza sempre di più nella mente a minare ottimismo, volontà e determinazione. Intanto stringo i denti, e continuo a lottare contro il vomito, costantemente, momento dopo momento, e continuo a stringere i denti fino a che scopro le mandibole indolenzite. Con deliberazione le rilascio, solo per scoprire dieci-cinque minuti dopo che sono di nuovo serrate a tenaglia. Anche quando non vomito più, e prima ho vomitato tutto quanto possibile, fino ad arrivare alla bile, di un incredibile verde brillante, amara da morire.

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Il secondo giorno è difficile persino pianificare azioni semplici, come cambiare le batterie al GPS. “Non è importante” – penso. E le cose non importanti aumentano sempre di più, mentre sto lì, raggomitolato su una sedia a poppa della barca, le onde che mi sballottolano, il vento a frustarmi, ma almeno porta lontano gli odori. 
Quelli di pesce soprattutto. La seconda notte è in incubo, peggiorato dal pensiero, insistente, che ormai dovrebbe passare – DEVE passare. Ma no. Non succede. Tempo in peggioramento. Swell di quattro metri, il bollettino la mattina aveva gracchiato, “north-westerly, knots three zero to three five” (venti da nord-ovest, da trenta a trentacinque nodi). Nella cuccetta, guadagnata la sera di corsa giù per la scala a chiocciola, entrambe le mani a tenermi fermo, l’effetto combinato dell’ancora galleggiante, del vento e delle onde è tale che devo entrare in fretta, togliermi i pantaloni della cerata, appendere sommariamente la giacca a vento imbottita ai piedi del letto, lontano dal naso per carità, calciar via le calze e rotolare nel sacco a pelo. Non è possibile altra preparazione. Sperando di non averci messo troppo, di non dover correre su per quella dannata scala roteante e ondeggiante e vomitare ancora. E resto lì sdraiato, la fronte sudata, le mandibole strette, strette.
Intorno un mondo impazzito, che non credi sia possibilmente vero, un mondo di cigolii, crepitii, le onde che sbattono sberle cattive, come un grosso rugbista furente, appena dall’altra parte della paratia, venti centimetri dalle orecchie. Il CRAAA – AA – AA – AK!!! esplosivo della cima dell’ancora portata al limite della tensione. Il corpo ogni tanto, nel gioco dei rimbalzi, sollevato per intero per ricadere con un tonfo, pronto a rotolare alle onde, una mano infilata tra il materassino e la paratia a tenermi fermo, a evitare di finir scodellato per terra. Il cuscino che miracolosamente non sa che di pulito, la mano e qualunque altra cosa no. Ma il lavarsele voleva dire entrare nel bagnetto formato bara, a rimbalzare da parete a parete: - “Non importante”.
A star così male da non crederci , non è vero, non è possibile, adesso mi abituo, adesso finisce. E non finisce. E non finisce. La mente spinta di forza, a bastonate, in direzioni volontariamente positive: – “Almeno sono asciutto e al caldo.
Asciutto e al caldo”. L’alternativa passare un’altra notte raggomitolato su una sedia, su, all’aperto, sul ponte di poppa.
Non è facile. L’onda di commiserazione, il desiderio di auto-compatimento pronta a spingerla via. Altra bastonata: - “Asciutto e al caldo”.
Domani devo entrare in acqua. E penso: – “Come posso farcela?. Magari gli dico che non vado”. E scopro con orrore, peggio con tepido, lontano orrore, lì, mentre rimbalzo come un dado riluttante nel bussolotto della barca, che ne sarei quasi contento, che sarebbe una liberazione. Poi l’orrore sovrasta. L’esser qui e non scendere sui tonni giganti, io?
Dove è finita la passione, il killing instinct, quello che mi faceva andare, e restare in acqua nel ben più freddo inverno adriatico, a prender pesci certo non altrettanto meravigliosi? Tanti anni fa? Forse troppi anni fa? Una bastonata ancora: - “Asciutto e al caldo, diavolo!”.
La mattina arriva in qualche modo. Provo un’apnea. Durata impossibile da calcolare. L’orologio è da qualche parte ai piedi del letto, impensabile rovistare lì in fondo per cercarlo: - “Non importante”.
Dopo quelli che sembrano trenta secondi, la prima contrazione diaframmatica. Un dito alla tempia, pulsazioni a novanta-cento-boh? E appena mi alzo devo entrare in acqua. In una delle più grandi sfide di pesca subacquea mai inventate. In questo stato. Magari gli dico che non vado…

Sto scrivendo l’inizio di queste note affrettatamente, nella cabina della Legacy, su tre fogli di carta strappati dal block notes di uno dei subacquei neozelandesi qui con me. Sono a Westport, costa ovest della Nuova Zelanda, South Island. È fine agosto 2007, pieno inverno, quindi.
Sono nella prima spedizione, per una volta non inventata e preparata da solo, mai organizzata per tentare la cattura di uno dei giganti dell’oceano australe, il Southern Bluefin Tuna, Thunnus maccoyii per la scienza. È praticamente il tonno blu Mediterraneo e Atlantico in versione antartica. Senza però secoli di catture alle spalle. Gli stock sono quindi intatti o quasi, le dimensioni medie ancora quelle che dovrebbero essere, tra i duecentocinquanta e i trecento chili. Per intendersi, si sta parlando di tonni alti una volta e mezzo un uomo e larghi il doppio, l’estensione della coda tale da coprirne la distanza tra testa e cintura. Le dimensioni massime sono sconosciute ma con ogni probabilità esistono quaggiù esemplari che possono superano i quattrocento e forse i cinquecento chili. Il record IGFA per il tonno atlantico, assai vicino geneticamente, è un dinosauro di quasi settecento chili! Mostri di cui solo l’anno scorso si è dimostrata la possibilità reale di cattura subacquea.
Dean Martin e Steve Hathaway, neozelandesi, quasi esattamente un anno fa ne avevano portati a terra due di rispettivamente 235 e 292 chili. L’ultimo un record mondiale IUSA (International Underwater Spearfishing Association).
Così siamo riuniti qui dai quattro angoli del mondo non solo nella speranza di catturare pesci incredibili ma anche pesci record, e perché no, per come vanno le speranze, anche di portar in barca il pesce più grande mai catturato con un fucile subacqueo. Sono speranze realistiche.

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I pescatori ufficiali sono quattro, da sinistra sotto: Eric Walker dalle Virgin Islands, territorio americano a settanta chilometri ad est di Portorico, Craig Clasen da New Orleans e Kyle Nakamoto dalle Hawaii, responsabile della produzione video della famosa serie televisiva Hawaii Skin Diver e naturalmente me stesso, unico non di madre lingua inglese.

Come rappresentante dell’organizzazione, Blue Waters Hunting International, è volato fin qui da Sydney, Australia, Andy Ruddock, estrema destra in piedi, laggiù tre volte campione nazionale di pesca subacquea. Come guide ed esperti locali Dean Martin, in piedi, estrema sinistra e Steve Hathaway, al centro. Tom, il capitano e il figlio in mezzo.

Punto di incontro Westport, un paesino della costa ovest della Nuova Zelanda, South Island. Ci troviamo tutti in realtà nel volo da Wellington a Westport delle sette di mattina. Aeroplanino a due eliche, piccino, che riempiamo totalmente, assolutamente, con i nostri mostruosi bagagli. Sacche con fucili giganti, borse pesantissime, zaini colossali, all’arrivo un carrello è interamente e solamente dedicato a noi. E nessuno ha dentro nemmeno la zavorra, Dean ha pensato a procurarla e ci aspetta in un deposito al porto. Un taxi-pullmino pur capiente carica i bagagli e scompare verso il villaggio, tornerà poi a prender noi. La giornata è fredda ma limpida, nuvolette piatte si addensano intorno alle montagne subito dietro Westport.
Al porto ecco la Legacy, la nostra casa per i prossimi giorni. Un robusto battello di venti metri, cabine spaziose, un gran ponte coperto da un telone così da togliere il peggio del vento ma aperto totalmente verso poppa..

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E, a ceffone immediato, un tonno da duecentocinquanta chili troneggia sul carabottino, risultato della pescata alla lenza da cui il battello è appena tornato. La sola massa, da vicino, è impressionante. Sono sicuro che ciascuno di noi, da tempo, si è familiarizzato con la forma del pesce, con il suo aspetto. E diversi di noi, più piccoli certo, ne abbiamo anche presi. Ma sono sicuro che anche per loro come per me, l’avere qui la nostra supposta preda, davvero per la prima volta davanti agli occhi, dà un brivido e una secchiata d’acqua di realtà: - “DAVVERO potrei prendere un portento del genere?”.
Montiamo a bordo, da questa notte dormiremo qui. Il battello è prenotato per sei giorni, per avere spazio di manovra scivolando speranzosamente tra perturbazione e perturbazione, qui in inverno pressoché a ciclo continuo, ma dovremmo uscire davvero per tre giorni. Carichiamo tutte le attrezzature, e ci mettiamo un bel po’. Poi, comincia l’attesa.
Le previsioni non sono ottimali. Nonostante qui sottoriva il sole continui più o meno a splendere, al largo si sta per scatenare una tempesta, dice Tom il capitano, una sessantina d’anni, brizzolato, grinzoso e grintoso. Così attendiamo, passeggiando falsamente calmi per la minuscola cittadina, tre o quattro pub, una biblioteca pubblica, un ampio supermercato, un vasto negozio “Farmer’s own shop”, il negozio del contadino, in fila una gran distesa di stivali di gomma per il terreno fangoso. La prima notte la passiamo in porto, ormeggiati ad un altissimo pontile. Chiacchieriamo, che altro, di pesci, di pesca, di luoghi, di tecniche. Andy fa sentire il peso della sua esperienza.

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Il giorno dopo le previsioni si attenuano, non è PROPRIO tempesta, sembra si stia allontanando. Siamo tutti nervosi, vorremmo tutti che l’attesa avesse fine, votiamo per uscire, forziamo la situazione. Tom tentenna ma è d’accordo. Il pomeriggio del 22 agosto, dopo aver caricato cestoni e cestoni dei resti di lavorazione della fabbrica di conserva del pesce come pastura e averle stivate nel ghiaccio sottopoppa, dopo aver sistemato almeno parzialmente le nostre ingombranti attrezzature, sotto un cielo ingannevolmente azzurro verso ovest ma con le montagne minacciosamente incappucciate e ammantate di grigio ad est, leviamo gli ormeggi. 
Dobbiamo salpare obbligatoriamente con l’alta marea perché al termine del porto canale c’è una difficile “sand bar”, una barra di sabbia, trasversale al flusso, che rischia di conciare male lo scafo se passata con poca acqua o mare grosso. Ce la caviamo con scarsi sei piedi sotto lo scafo.

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Prua al largo, verso l’orizzonte. Dobbiamo raggiungere la Hokitika Trench, una profonda fessura sul fondo dell’oceano, oltre settecento metri, dove si concentrano i grandi predatori, quaranta, cinquanta miglia al largo.

La velocità di crociera della Legacy è un tranquillo nove-dieci nodi. Ci metteremo quasi cinque ore ad arrivare.
A cena comincia il mal di mare. Tutti più o meno verdini vomitiamo a ripetizione, la poppa è affollata di figure prone, imbacuccate per il vento che appena ci si è allontanati dalla costa ha cominciato a picchiare secco, stravaccate sulle sedie in legno duro, le teste ciondoloni. Figure pronte a schizzar su e a curvarsi oltre la murata, suoni di stomaci rovesciati portati via dalle raffiche. Dei sette imbarcati solo due ne sembrano immuni. La sera si tirano le paglie, in versione marinara quattro pezzetti di monofilo da 400 libbre. Tiro la paglia più lunga, sarò l’ultimo. In questo momento di disperazione mi va benone. Mi dà modo di studiare la situazione, di recuperare dal mal di mare. La barca ferma i motori, si sistema per traverso, comincia a rollare da maledetta allo swell ma almeno il movimento è in qualche modo ridotto. Riesco di prima mattina a crollare in cuccetta, almeno dormo qualche scarsa ora.

Il 23 Agosto è grigio e ventoso. Forse perché è appena l’alba, sono da poco passate le sette. È l’ora dei subacquei. Il primo è Kyle, giapponese di ennesima generazione alle Hawaii, più piccolo di me in mezzo a questi marcantoni di americani. Freddoloso, ha portato una muta da sette millimetri e pantaloni da cinque. Usa un fucile che è il meno potente della partita, lo guardiamo tutti dubbiosi, dice che ha difficoltà a caricarne di più lunghi. Va in giro in pantaloncini da bagno, in caccia della sua numerosa attrezzatura. Intorno, l’alba man mano si stempera in un azzurrino slavato, invernale. Nuvole striate, alte, denunciano tempo non stabile. Si vede il fiato. Noi siamo imbacuccati in giacche a vento pesanti, coppole di pile spesso, regalo dell’organizzazione. Kyle deve preparare anche tutta l’attrezzatura per le riprese subacquee, apre scatole imbottite dopo scatole imbottite. Per fortuna ha come sponsor la compagnia aerea Air New Zealand così il suo quintale e oltre di attrezzatura non gli sta costando un  patrimonio in overweight.
Accendiamo i motori, andiamo in caccia dei trawler oceanici. Processo lungo, dobbiamo prima trovarne uno col radar, poi inseguirlo e raggiungerlo. Presto comincia a montare il vento. Prima raffiche più forti, poi vento teso che straccia le punte delle onde, le monta a neve, le sbuffa via con cattiveria. 
Finalmente un puntino ondeggiante all’orizzonte pian piano si definisce, si ingrandisce, assume i contorni di una nave. Questa è coreana, rugginosa, il grande scivolo per salpare le reti una distesa arancione. A poppa cavi d’acciaio si protendono obliqui, scompaiono sott’acqua ad un centinaio di metri. Sono segnalati da due grosse boe arancioni che strisciano nell’acqua resa cilestrina dalle eliche massicce.
Intorno centinaia e centinaia di Cape petrel (Daption capense australe – procellaria del capo) bianchi e neri affollano l’oceano, in uno stridio che si avverte nonostante il rombo dei motori delle due imbarcazioni ora vicine. Sono talmente numerosi che coprono come un tappeto la superficie, le ali spalancate nel vento teso, pronti a sollevarsi in volo. Questo litiga con quello accanto, l’altro individua nell’acqua un boccone di pesce perso dalla nave e si tuffa. Quest’altro lo imita. Le ali di tutti nere a grandi chiazze bianche a sovrapporsi, a confondersi, le teste nerissime irate.

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In mezzo, albatross giganti di tre differenti specie si tuffano senza timore di essere ostacolati, le ali del più grande, un vecchio albatross candido con tre e passa mostruosi metri di apertura alare a letteralmente sbatter via dall’aria gli uccelli più piccoli. In mezzo, nel bianconero degli altri, le macchie fumose degli Hall’s Giant Petrels (Macronectes halli – procellaria gigante di Hall) con il loro pauroso becco dalla punta rossastra ricurva sottolineato dalla singola narice. Si posano e attendono più pazientemente il loro turno.

Gli uccelli non sono gli unici ad essere interessati ai brandelli di pesce che escono dagli ombrinali e prese a mare del trawler. In mezzo ad urla esterrefatte di noi umani il dorso blu cobalto di un tonno mostruoso esce lì accanto, struscia quasi contro la parete, mostra la dorsale alzata, un lampo, le pinnule gialle, scompare. Siamo senza fiato.
Ci sono, ci sono davvero! Sono qui, praticamente sotto la barca! Una frustata non avrebbe potuto accelerare di più la preparazione.
Kyle viene aiutato da tutti a bordo, tutti cioè quelli non piegati in due dal mal di mare, il sudore alla fronte e i denti stretti.
In fretta è vestito, il fucile caricato, le boe stese, ottanta litri tra gonfiabili e rigide.
Si preparano a scendere in acqua in tre. Kyle naturalmente, poi Andy con la sua cinepresa e Dean con un altro fucile, ad assistenza e difesa dell’uomo in acqua. L’anno precedente non erano stati avvistati squali dai subacquei, nemmeno col tonno ferito, ma i pescatori alla canna parlavano di grandi squali Mako (Oxyrinchus sp.) “in plague proportions”, in quantità da pestilenza. E portavano a casa cinque o sei Mako per viaggio… Un anno fa certamente, ma è nota da tempo l’associazione di questi squali d’alto mare con i banchi di tonni. Per cui, prudenza insegna, ecco il secondo uomo col fucile pronto.
Il tempo si affretta, Tom, il capitano, si sposta alla ruota di governo di poppa per coordinare le operazioni, arriviamo quasi a contatto con il trawler, da bordo ancora nessuna presenza umana che venga a controllare cosa facciamo qui quasi a strusciargli la vernice. Una secchiata di rimasugli di pesce a strappare i tonni dalla nave madre, un sobbalzo della retromarcia a toglierci bruscamente, di poco, dalla sua poppa, una seconda secchiata per attirarli in superficie. Urla di tutti, sono in acqua.
Le testine nere dei subacquei sono quasi perse in mezzo al caos di onde altalenanti e di centinaia di ali bianche e nere che si affollano lì intorno. Unici punti colorati le boe rosse e gialle. Pochi momenti, poi un urlo di Steve: - “Diver DOWN!”. Kyle ha alzato le pinne al cielo, si è immerso. Gli altri lo seguono immediatamente sott’acqua. Oceano vuoto di umani. Lunghi momenti. Siamo tutti con il fiato sospeso. I secondi passano, nella memoria stranamente silenziosi nonostante il subbuglio che nella realtà doveva esserci. Poi riemerge una testa, poi un’altra, un’altra ancora. Una brandisce un fucile, si vedono gli elastici penzoloni. Ha sparato! Gli occhi di tutti si incollano alle boe. Se il tonno è stato preso ora partiranno.
Ecco, la prima accelera, intorno comincia a formarsi la schiuma per la velocità crescente, poi diventa verticale, tentenna un momento. Scompare per intero sott’acqua. C’è. Il tonno è stato preso!

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Ahimè non dura. Dopo poco la boa riappare con un sobbalzo in superficie. Galleggia inclinata a mezzo. Non può esserci un tonno gigante lì sotto. Al massimo il peso di un’asta. Con una manovra rapida, la poppa che sobbalza alla retromarcia brusca, imbarcando un centinaio di litri d’acqua, arriviamo sotto bordo ai subacquei e li carichiamo. Kyle sembra tranquillo ma ha lo sguardo vuoto. Spiega che il colpo era entrato troppo poco, il tonno era partito, ma si era strappato.
Troppo in fretta. Tutto troppo in fretta. E sì, il tonno era GRANDE! Realizzo che le finestre di possibilità sono davvero strette, una ventina di secondi al massimo prima che i tonni ingurgitino alla loro solita feroce velocità di caccia i bocconi presentati, si accorgano che non c’è altro, e tornino alla nave madre.
Poco, davvero poco…

La paglia successiva era toccata a Craig, il subacqueo di New Orleans. Lui ha un fucile decisamente serio, all’altezza della sfida, cinque elastici circolari, legno laccato pesante, cinque o sei chili per ridurre il rinculo. Tutti in ogni caso montiamo la slip-tip migliore al mondo, la Steve Alexander, a tre cuspidi. Avevo scoperto Dean questa mattina aiutare proprio Craig e passare amorevolmente alla pietra, lentamente, più e più volte la punta fino a renderla affilata letteralmente come un rasoio. Operazione che io avevo già fatto a terra, per tutte le mie punte. Niente è troppo in occasioni così esasperate.
Sta male anche lui. Si alza pallido dalla sedia in legno, deglutendo a ripetizione comincia a vestirsi. Intanto Tom ha rimesso la Legacy in movimento, bisogna riguadagnare il trawler, ridotto ad una sagoma lontana. Pian piano ci avviciniamo di nuovo, i palloni di Craig sono pronti, tutti erano stati gonfiati ancora in terraferma alla pompa della stazione di servizio per far loro raggiungere le due atmosfere ad assicurare una stabilità di galleggiamento nelle prime, cruciali, decine di metri. Si siede a poppa, carica il fucile, si aprono i cancelli. È tutto pronto. Ora entrano in acqua in quattro, si è aggiunto Kyle con la sua spettacolosa cinepresa subacquea ad alta definizione.
La sequenza di operazioni per arrivare a sfiorare la poppa del trawler, pastura, retromarcia, nuova pastura è condotta con più bruschezza di prima, il vento è aumentato, le onde sono più cattive, la poppa salta in su e in giù rispetto alla nave qui a fianco di due, anche tre metri. I subacquei si tuffano a ripetizione. Subito si perdono le identità. Sono solo quattro testoline nere di umani smarriti sulla superficie dell’oceano, nascoste in mezzo al caos delle procellarie. Vedo le pinne di uno che di colpo imbiancano la superficie in un’accelerata brusca, si levano al cielo, scompaiono. Craig? Ha visto i tonni? Sta per sparare? Steve urla:- “Diver down!”. Le pinne degli altri altrettanto si affrettano, spariscono sott’acqua. A bordo non facciamo in tempo a trattenere il fiato che Craig, ora non c’è dubbio, è lui, erompe sulla superficie con un urlo belluino.
Ricade in acqua, urla di nuovo e di nuovo. Leva al cielo il fucile scarico. Ha sparato! E bene, dalla reazione! Le boe partono. Strusciano sull’acqua, accelerano. La prima, trentacinque litri, rossa, nella schiuma della velocità si rizza in verticale, tentenna, sobbalza, scende fino a quasi scomparire. Si ferma! Il tonno gigante, lì sotto, è fermato da una sola boa! Il colpo è stato micidiale davvero.
Ora comincia il duro lavoro del tirarlo su. Sperando che non si laceri, che non gli venga in mente di accelerare e andarsene trascinandosi dietro tutte le altre boe.
Fatica improba. Per evitare che al primo strattone cattivo il tonno strappi dalle mani il sagolone, costringendo il subacqueo a ricominciare tutto da capo, lo si fa scorrere all’interno di uno speciale moschettone. Se la tensione è troppa lascia scorrere altrimenti blocca. Bisogna tuttavia aprirlo, di forza con una mano, e tirare contemporaneamente con l’altra.
Craig però è bello grande, due spalle da nuotatore o forse da giocatore di football. Comincia la lotta. Il caos di uccelli intorno non è diminuito, anzi, se possibile, è ancora aumentato. In mezzo diventano più numerosi gli albatross, sia i giganteschi  wandering Albatross (Diomedea exulans), sia i Mollymawk (Diomedea bulleri), con il becco così vistosamente orlato di giallo, sia il bellissimo Black-browed Mollymawk, l’albatross dalle sopracciglia cinerine (Diomedea melanophrys). Ogni tanto passa un’onda, il frangente che travolge gli uccelli più piccoli, sciacqua le teste dei subacquei, si perde nell’oceano alle loro spalle. Craig combatte ormai da venti minuti. Il tonno, lentamente, sale. Da bordo seguiamo con ansia la lotta. Tom spesso compie una brusca manovra di retromarcia per restare vicino al gruppetto. Altri dieci minuti e siamo a mezz’ora di combattimento. Intorno oceano infinito, nessuna traccia di vita umana, il trawler da tempo inghiottito dall’orizzonte. Finalmente, sotto le pinne degli uomini in acqua si comincia ad  intravedere, a tratti, una macchia argentata, gigantesca, ben più grande del subacqueo che la sta salpando. Sale, sale, si fa più definita.
A bordo si misura con precisione un sagolone di tre metri, per seguire alla lettera i regolamenti per l’eventuale record del mondo. Craig riceve il suo secondo fucile, secondo le regole scarico, lo carica, scende deciso. Sta per dare il colpo risolutivo, per assicurare il pesce con un'altra asta. Scendono tutti con lui, le cineprese sono al lavoro.
Riemerge, tira ora con due cime, salpa la figura gigantesca che sotto di lui è sempre più definita. Emerge la testa, lì accanto, color dell’oceano, enorme. Passa un frangente, il peso è tale che Craig viene sommerso, trascinato sotto per un lungo momento fino al cavo d’onda successivo. Un’ultima secca retromarcia, l’aggancio del tonno, ormai immobile, quattro uomini che tentano di tirarlo su. Si incastra con la mandibola sotto la poppa, ricade in acqua. Gli uomini aspettano l’onda, curvano la schiena, un grugnito e il tonno ha la testa tutta fuori dall’acqua. L’onda successiva e scivola a bordo. È assolutamente gigantesco. Occupa per traverso quasi tutta la poppa di una barca di venti metri. È pressoché incredibile che una bestia di queste dimensioni abbia ceduto ad un uomo, tre volte più piccolo di lui, in acqua, da solo, in mezzo all’oceano a cento chilometri dalla costa. C’è qualcosa di primitivo in tutto questo, di fieramente primigenio. Craig guarda la sua preda, in piedi, immobile, per un lungo momento inconscio delle congratulazioni intorno. Poi si scuote, sorride e si presta alle fotografie e alle riprese di rito. Ma, ad intervalli, la muta bagnata indosso, si fermerà ancora, come preso in un personale incantesimo di silenzio e di meraviglia, a contemplare il suo tonno gigante.

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Intanto sono quasi le tre del pomeriggio. C’è ancora tempo solo per un altro subacqueo prima che cali il tramonto invernale rendendo ancora più pericoloso l’entrare in acqua a combattere. È il turno di Eric. È già in muta, ha seguito con eccitazione la cattura di Craig. Ora tocca a lui.
Il trawler questa volta ha scritto sulla poppa “La Valletta” e dipinta sui fumaioli la croce di Malta. Per il resto è altrettanto rugginoso, e altrettanto puzzolente, di quelli precedenti. Eric ha di recente avuto una disavventura con uno squalo tigre che aveva deciso che sgranocchiarlo era una buona idea. Era riuscito a cacciarlo via una prima volta sbattendogli il fucile in bocca, aveva raccontato quella prima tranquilla giornata a terra, poi per difesa aveva dovuto sparargli. È anche lui giovane, è sette anni che fa pesca subacquea seriamente, racconterà poi nelle interviste finali ma, vivendo dove vive, in mezzo al Mar dei Caraibi, ha avuto innumerevoli modi di migliorare la propria esperienza. Ed è fisicamente anche più ben piazzato di Craig…
I subacquei piombano in acqua, a ripetizione, uno dopo l’altro. I tonni sono evidentemente puntuali all’appuntamento perché vedo la muta sudafricana azzurra e nera di Eric scomparire subito sott’acqua. Sono di poco passate le tre e un quarto quando Eric risale, il fucile scarico agitato al cielo. Dalla barca vediamo le boe tentennare, non partire subito. Poi lentamente le prime due, legate insieme, scivolano sull’acqua, arrivano sulla verticale di fianco alla testa di Eric, si drizzano, sobbalzano… e restano lì.

 

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È probabilmente effetto della sera che avanza perché stranamente non hanno intorno quella coperta di uccelli che gli altri subacquei avevano in ore più luminose. Il lavoro di salpare il gigante, metro dopo faticoso metro, ora inizia. Vediamo a ripetizione la muta di Eric sollevarsi per metà fuori dall’acqua nello slancio che imprime al sagolone. Ma anche a lui il mal di mare ha lasciato un segno, pesante.
Sono da poco passate le tre e mezza che lo vediamo reclinarsi piatto sull’acqua. Fermarsi. Riprendere fiato.
Ricominciare lentamente e fermarsi di nuovo. Quando all’ennesima manovra arriviamo vicini con la Legacy solleva la testa e mormora: - “I’m exhausted.”

Andy comincia ad aiutarlo, a turno sollevano, ottanta centimetri per volta, il tonno da dove il lungo sagolone lo aveva fermato.

Sono le tre e quaranta quando Eric chiede il secondo fucile, lo carica con fatica e scende per il colpo decisivo. Ora fa da solo, tira, tira a perdifiato. Il tonno sale, dalla barca vediamo la sagoma argentata sotto i piedi sempre più distinta. Pronti con il sagolone per assicurarlo, un’ultima retromarcia nel grigiore delle nuvole basse e scure. Il tonno è raffiato, Eric sale a bordo e si sdraia, totalmente esausto, ancora addosso maschera e boccaglio, le pinne ai piedi. Rimane lì, spossato, a respirare a bocca aperta mentre gli altri si sforzano di alzare il pesce massiccio fuor d’acqua.

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Ancora sdraiato di colpo ruota e abbraccia il suo tonno, finalmente salito a bordo all’ultimo sforzo collettivo.
Resta lì, immobile, il braccio destro attraverso la forma gigantesca, la testa sul piancito, seminascosta lì a fianco.
Tutti per un momento silenziosi ci fermiamo ad osservare, rispettando la fatica e la commozione.

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Quasi a voler festeggiare con lui la vittoria, l’oceano gli offre uno straordinario regalo. A poppa, giocosa come un delfino ma ben più massiccia e meravigliosa, una giovane Southern Minke Whale (Balaenoptera bonaerensis) spruzza al cielo sempre più scuro il suo getto vaporoso mostrando vicinissima, per lunghi minuti, il dorso variegato di grigio e la dorsale a falce.

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Venerdì 24 agosto. Giornata grigia, nuvole spesse a coprire tutto il cielo, onde massicce, quattro metri di swell che arrivano da lontano, sbattono con sconquasso contro la paratia, sollevano e inclinano l’imbarcazione. Oggi tocca a me. 
Mi alzo stremato. Intorno cenni di incoraggiamento, Craig mi batte sulla spalla. Riesco a mandar giù tre albicocche secche che fanno parte del mio abituale “pastone da pappagalli” per quando devo pescare: frutta secca, ad alto contenuto energetico. Restano giù, speriamo bene. La vestizione è una sofferenza. Dalla sacca devo pescare la muta senza guardare in basso perché altrimenti sto male di nuovo e vestirmi con lunghe pause di respirazione controllata in mezzo.
Tentenno sui guanti di neoprene, poi decido che, tanto, freddo fa freddo, il termometro dell’ecoscandaglio non ha mai superato i 13 gradi in superficie, la comodità delle mani libere vale di più della protezione termica e mi infilo i guanti di cotone sottili.
Nel giro dei tre giorni sono penosamente riuscito, ad intervalli, a preparare il sagolone con la sequenza di boe necessaria. Sono tutte boe sudafricane, nell’ordine una gonfiabile da 35 litri e tre rigide, una da 8, una da 10 ed una da 11. Per un totale di 64 litri, perfettamente nei canoni dei record. Quella gonfiabile è un po’ vecchietta, ce l’ho da tanti anni. Di per sé perderebbe, ma l’ho gonfiata ieri al massimo, lentamente, la pompa da bicicletta che mi porto sempre dietro a scaldarsi tra le mani.
Questa mattina è un po’ più sgonfia, il freddo della notte certamente ma altrettanto certamente le perdite. Pian piano, la barca che ondeggia ancora a motori spenti, la riporto a pressione. Qui ci si gioca tutto nell’arco di minuti, anche se la boa è lungi dall’esser perfetta, nel tempo concesso va benone. Quelle rigide mi preoccupano meno. È vero che sotto ci sono settecento metri di fondo ma fino ad oltre cento e passa metri sono garantite mantenere la galleggiabilità. Il fucile è il mio fedele e meraviglioso Tuna Gun. La sagola quasi dodici metri di cavo d’acciaio. La punta la perfetta slip-tip Steve Alexanders, vecchio guru californiano di fucili e attrezzature da pesca nel blu. Muta e pinne le fantastiche Apnėa greca su misura e le C4 Mustang. Tutta attrezzatura al top mondiale. Quello che non è al top, né mondiale né altro, sono io.
La Legacy intanto ha acceso i motori, è partita in caccia dell’ennesimo trawler. Ciondolo sulla poppa, il fucile in mano, in attesa senza voltare la testa che compaia qui a fianco l’ormai consueta parete rugginosa.
Andy mi batte sulla spalla. È ora. Mi siedo, comincio a caricare i cinque elastici, mi devo interrompere al terzo perché un’onda più cattiva delle altre mi inonda e ritirandosi mi fa quasi scivolare in acqua. Caricato. Mi alzo in piedi, mi appoggio con la schiena, mi infilo le pinne ai piedi, con attenzione, una per volta, che non vengano sciacquate via da altre onde. Dietro la testa ho infilato al sicuro in un portacanna il boccaglio con la maschera penzoloni. Mi volto, urto goffamente con un gomito il boccaglio, la maschera scivola sul piancito. Da poppa arriva cattiva un’onda, supera il bordo, mi investe le pinne, fa arricciare al contrario le punte, si impossessa della maschera, si ritira trascinandola con sé senza che abbia potuto fare un solo movimento. Questo oceano non mi vuole bene, mi viene irrazionalmente, infantilmente, stancamente da pensare. Ho sempre con me i doppioni delle attrezzature fondamentali, basta far aprire la sacca e farmi prendere la maschera di riserva. Però, insomma, come partenza!
La poppa del trawler che compare alla mia sinistra, i sobbalzi della poppa, le manovre bruschissime nell’imponente onda lunga, Steve che si china a urlarmi nelle orecchie “GO – GO – GO!!!”. Mi tuffo.
Entro in acqua ad occhi chiusi. L’acqua è torturata contemporaneamente dalle eliche delle due imbarcazioni, una coltre bianca di invisibilità ricopre la superficie. Pinneggio veloce, cerco di togliermi di qui. Il fucile non offre resistenza, da bordo stanno filando il sagolone velocemente. Sono entrati in acqua anche Kyle e Andy con le cineprese. Ho solo vagamente la sensazione di qualcuno che mi accompagni, per il resto la mia concentrazione è totale. Non mi accorgo nemmeno, ripensandoci ora a posteriori, che l’acqua è, doveva essere, gelata.

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Pinneggio velocemente, esco dall’acqua bianca. Di colpo ci vedo. La visibilità si estende per una quindicina abbondante di metri, un mondo verde in movimento. Di colpo, ecco i tonni! Prima uno, poi due, poi un altro ancora salgono dal basso. Un primo momento non realizzo quanto siano grandi poi un infinitesimo brandello bianco di pesce viene inghiottito al volo, scompare nella gola. Brandello che so essere quaranta centimetri per un paio di chili: realizzo improvvisamente la dimensione della scena. Sono dinosauri lungi quasi due volte me, larghi il doppio, pesano quattro volte quello che peso io.
Quattro. Ho penato decenni di pesca subacquea prima di prendere un pesce, tanti anni fa, che per la prima volta fosse più pesante di me. E qui gli unici in vista sono esclusivamente mostri di questa taglia.
Sono pesci straordinari, il ventre pomellato di grigio, bianco e viola metallico, il dorso liscissimo, cangiante a seconda dell’angolazione della luce che filtra dalla superficie torturata, tra il lustro blu scurissimo e un fulmineo oro antico. La coda enorme batte l’acqua nel loro consueto nuoto quasi meccanico, solo di coda, muscolare come un culturista spropositato.
Ma sono lontani. E i pezzetti di pesce stanno terminando. Sono già terminati! Mi immergo, non ho coscienza di aver preso fiato, scendo loro incontro. Uno è vagamente interessato, risale un istante nella sua rotta già discendente, mi guarda un attimo solo ed è già cinque metri lontano. Impensabile un tiro. Mi guardo, ormai freneticamente, intorno. Nulla, oceano vuoto. Sono scomparsi. Tutti. Sono senza fiato. Devo risalire.
Dalla superficie guardo sotto, a destra, in basso, a sinistra. Nulla. I venti secondi di finestra di tiro che avevo calcolato acquistano ora nella realtà un impatto drammatico. Bisogna fare IN FRETTA!
Rimango a galleggiare in superficie a guardarmi sotto, un po’ istupidito dalla fulmineità dell’incontro. Intorno urla, strida, sbatter d’ali, il cielo oscurato da forme volanti, vicine! Una botta violenta sulla sommità della testa mi fa sobbalzare, stupito, di colpo quasi offeso. Mi volto e contemplo a dieci centimetri un becco ad uncino sormontato da un imperscrutabile sguardo d’uccello. Sono le procellarie giganti, hanno evidentemente deciso che i riflessi sul cinturino della maschera, o forse la pelle bianca del viso, siano cose da mangiare. Arrivano zitte zitte, galleggianti come innocui gabbiani, studiano il colpo, e poi abbassano una beccata micidiale che fa male, rintrona in testa e rischia di strappare il neoprene. Ti volti e le scacci con un gesto del braccio. Alzano due metri di ali, arrabbiate decollano. Ma è una finta, atterrano sgraziate tre metri più in là, quatte quatte nuotano di nuovo fino alla testa, due, tre, quattro forme grigio-fumo oscuro. Un minuto dopo sono di nuovo lì, in superficie a far la mite paperella, ad attendere la possibilità di ripetere la beccata.
La Legacy di colpo è di nuovo qui. La poppa da quaggiù in acqua un ripiano da agguantare al volo, stando attenti a non finirci schiacciati sotto, quando passa nella sua folle corsa su e giù. Consegno il fucile, agguanto con una mano il bordo, mi trascino su, improvvisamente conscio della zavorra pesante che mi tira in basso. Respiro pesantemente, la testa mi gira. Il mal di mare, l’acqua gelata, la spossatezza accumulata fin qui, non importa. Ho altro cui pensare, adesso. Il piano che mi ero formulato in testa era un primo passaggio per studiare la situazione. Io, non solo i racconti degli altri. Il secondo giro sarà, sarebbe, quello buono. Considerazione uno, devo fare in fretta. Mentre rimugino si sporge verso di me Andy, nella muta stillante, e mi urla al di sopra dei motori: - “You’ve to stay close to the burely!” Devi stare vicino alla pastura. E realizzo che non avevo notato, non ho memoria, di aver seguito la secchiata decisiva. Errore, quindi. Lo correggerò tra poco, la Legacy ha riacciuffato il trawler, di nuovo quello di Malta noto senza pensarci. La parete nera della nave già qui a fianco. Mi ridanno il fucile, mi alzo in piedi. Sono pronto di nuovo. Pronto per quanto possibile. La testa è vuota, la concentrazione è solo volontà e non un’unicità di tensione. Steve dietro di me mi batte una manata di incoraggiamento sulle spalle. Riesco a rispondere solo con un vago cenno della testa. Un istante dopo: - “GO – GO – GO!!!”. Mi tuffo.
Questa volta ho controllato, ho visto il figlio di Tom lanciare una secchiata volante di pesce che mi sorvola, va ad ammarrare con un tonfo oltre di me in mezzo ad un improvviso turbine d’ali. Nuoto in quella direzione, con determinazione, vedo i brandelli bianchi che appena cominciano a scendere, qualche forma d’uccello si tuffa dall’alto, remiga con le ali in giù fino a afferrarne uno, risale ad ali ferme. Non sono importanti. Di colpo, di nuovo, i tonni! Questa volta sono tanti. Quanti! I quattro - cinque di prima era evidentemente solo la frangia del banco che avevo mancato. Qui, ora, ce ne sono una dozzina almeno, non riesco a contarli, non voglio contarli. Si intrecciano con rotte che so essere fulminee non appena realizzo con un soprassalto, di nuovo, la reale dimensione della scena. Uno proprio davanti a me ruota, mi punta contro, risale a prendersi pezzo di pesce bianco. Mi immergo e improvvisamente tutto sembra al rallentatore, la visone laterale scompare, solo quel tonno resta in vista. Io però sono su un’altra striscia temporale, più lenta. La capovolta è nella melassa, le pinneggiate lente, troppo. Il tonno ha già aperto la bocca, inghiottito il boccone, comincia a ruotare. Arrivo lì vicino, i colpi di coda sono potenti, vedo la parete blu del fianco del tonno appena curvarsi nella scodata che lo porterà via, un flash di memoria blocca per sempre la dorsale alzata, il blu-oro della pelle, un accenno di movimento di altre forme giganti lì dietro. 
Il fucile si muove da solo, sparo. Il tiro è buono, vedo l’asta comparire appena dietro la pettorale sinistra. Un istante, il tonno punta la testa verso il basso, fulmineo accelera. 

Già mi manca il fiato, mentre risalgo incrocio qualcuno con la telecamera, faccio segno di no con la mano. Sono convinto di non aver sparato abbastanza bene, la direzione era giusta ma avrei dovuto tirare in testa.
Probabilmente poi ero troppo lontano per bestie di questa stazza. Istanti di negatività. Seguiti da ancor più brevi istanti di speranza. Forse riesco a tenerlo, forse si ferma…
Arrivo in superficie in tempo per sentire Andy scandire: - “Two down, three, four down.” Stentoreo:- “ALL FLOATS DOWN!”. Tutte le boe sono giù. Pessime notizie. Se non risalgono in fretta…
La Legacy è qui, passo a qualche mano lassù il fucile improvvisamente così leggero, striscio su. Mi alzo in piedi.
Chiedo vagamente: - “My floats?”. Un generale scuoter di testa. Risalgono anche Andy e Kyle. Andy mi si avvicina e dice:- “Pity, really a nice fish”. Peccato, era davvero un bel pesce. Consolato? No davvero.
Ho la testa senza pensieri, vuota. Tom comincia a compiere larghi giri nella speranza di incrociare nell’oceano mosso, sulla superficie spolverata di bianco dai frangenti, i vaghi puntini gialli e rossi delle mie boe. Dopo pochissimo non ci credo nemmeno io. Mi isolo, mi spoglio, metto via l’attrezzatura, il mal di mare lì, ma in qualche modo distaccato, come tutto, tutto il resto. Mi rivesto, salgo sul ponte superiore. C’è il sole, a riparo dal vento non fa freddo, si sta quasi bene.
Oceano tutto intorno. Non chiede, non osserva, esiste soltanto. Tempo interminabile. Movimento infinto. La mente lisciata, ridotta, si calma, il battito rallenta. Piano, Riccardo ritorna.

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Sul ponte inferiore è la volta di nuovo di Kyle. Gli prestano un fucile, serio questa volta, cinque elastici, un’asta da un chilo. Ci aggancia la sequenza di boe che aveva usato la prima volta per un totale di oltre ottanta litri. Vuol dire, ribaltando la situazione, per il tonno sollevare una massa di ottanta chili dal fondo. A fianco del trawler tutti al solito guardiamo l’acqua lì vicino, aspettiamo di vedere scorrer via i dorsi lucidi dei tonni. Invece tre figure velocissime, nere, ci saltano allegramente incontro, inanellano inaspettate acrobazie fuor d’acqua, sbuffano rumorosamente. Sono tre foche da pelliccia neozelandesi (Arctocephalus forsteri), anche loro in caccia, anche loro qui per qualche boccone facile.
Intanto si sono fatte le undici e mezza prima che la sequenza dell’inserimento in acqua dei subacquei sia terminata. Dall’alto guardo la scena dipanarsi. La muta mimetica verde-nera di Kyle si distingue relativamente bene. Nuota veloce fino a dove devono esserci i tonni, si immerge, evidentemente spara, risale a vedere le boe partire. Scompaiono sott’acqua due boe ma la terza e la quarta restano a galleggiare. Tonno fermato. Retromarcia secca, da bordo prendono il fucile, Kyle è libero di lavorare il tonno a due mani. Però ora succede una cosa diversa. Questo tonno non si limita a combattere in profondità, comincia a muoversi anche in orizzontale. Il subacqueo afferra la boa e comincia a pinne ferme a essere trascinato per l’oceano. Gli altri subacquei in acqua nuotano con energia per non esser lasciati indietro. Poi la processione si ferma. Kyle comincia a salpare ma sembra faccia molta fatica. Da lontano si sente che parlano ma il vento che sibila in mezzo agli alti frangenti porta via le parole. Restano lì, non sembrano far nulla, ogni tanto uno si immerge ma torna presto in superficie. Certamente il pesce è profondissimo, lì sotto, non visibile da dove riescono a scendere i subacquei.
Poi il tonno, non domo, decide di partire di nuovo. Comincia a nuotare ancora, vedo le pinne di tutti cominciare a batter l’acqua, le punte bianche. La terza boa struscia sulla superficie, accelera, si avvicina sempre più alla testa di Kyle, si drizza verticale, si arresta per un momento lì a fianco, scompare risucchiata sott’acqua. La quarta, la più grossa, da sola quaranta e passa litri, segue lo stesso cammino. La vedo arrivare vicino alle teste dei subacquei, ora tutti vicini a contemplare increduli questa dimostrazione incredibile di potenza, cominciare a deformarsi quando l’inarrestabile tensione del pesce la tira verso il fondo, si stira, si allunga, scompare anch’essa

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Sono le undici e cinquanta quando la fotografia fissa in un’immagine tutti i subacquei che guardano verso il basso, le testoline perse nell’immensità dell’oceano, nessuna boa in vista. E nessun tonno.
Kyle, cinque minuti dopo è di fianco a me, ancora in muta guarda dall’alto la distesa agitata dell’oceano, muto, cercando come me il giorno precedente una traccia di giallo ed arancione. Nulla. Per venti minuti, caparbiamente Tom giù in cabina farà svolgere alla Legacy complessi giri, cercando. Niente. Ci stringiamo le mani e cerchiamo con una fiacca battuta sul club delle boe perse di allentare delusione e tensione. Con poco successo.

Al porto, quando arriveremo il giorno dopo, e quando come di consueto anche la terra impietosamente sembrerà ondeggiare, la bilancia elettronica segnerà 244 chili per il tonno di Craig e 228 per quello di Eric.
 

Le fotografie fermeranno stanchi sorrisi abbaglianti a fianco di forme a siluro, i colori ormai spenti, appese terribilmente a trofeo a testa in giù, aliene nella loro perfezione oceanica e nella massa incredibile a fianco dei rimpiccioliti umani.

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Ora, eccoci giunti ai finali. Due. E ho lottato, sappiatelo, per ridurli a due soltanto.

Finale uno. Con una delle parole, tra le più amare, fra le tante che io conosca.
“E allora? Come è andata?
Bene?”
Quasi.

Finale due. 
Ora, se qualcuno, andando per il Mar di Tasmania, trovasse per caso al largo, tra foche e balene, quattro boe, due rosse e due gialle,
con sotto attaccato un tonno, si ricordi per favore che è roba mia.